3 - Energia pazzesca!

 

 

 

 

Stanco di studiare legge ho cercato lavoro. Il primo colloquio è stato per un posto in una finanziaria del mio paese. Entrai in quest'ufficio che trasudava capitalismo da ogni poro, con mobili anni novanta e una segretaria che rispondeva al telefono con auricolare e microfono. Pochi minuti d'attesa e venni presentato al selezionatore: un uomo sulla quarantina, palestrato, abbronzato come un muratore siciliano, vestito a puntino con la spilletta dell'azienda bene in vista sul doppio-petto. Ci accomodammo in una stanza con dei televisori alle pareti proiettanti a ripetizione le parole “sogno, futuro, speranza” intervallate da foto di Flavio Briatore e Silvio Berlusconi. E già qui avrei dovuto capire...

Non mi venne chiesto nulla riguardo la mia preparazione, le mie esperienze o le mie presunte capacità. Anzi, non mi venne chiesto proprio nulla in generale. Il selezionatore si esibì in venti, e dico v-e-n-t-i, minuti di monologo durante il quale precisò infinite volte che: “In quest'azienda hai la possibilità di fare carriera”. In che modo non era dato sapersi. Nonostante un colloquio parecchio atipico, “la possibilità di fare carriera” per un ragazzo ingenuo fu abbastanza allettante da accettare l'immediata proposta d'assunzione. Ed ecco che mi ritrovai con un lavoro.

 

Ben presto, però, iniziai ad avere seri dubbi sulla bontà dell'adesione. Si trattava, infatti, di un'occupazione che se parlavi di contratto in regola, il principale iniziava a schiumare dalla bocca, contorcersi, parlare aramaico ruotando la testa di trecentosessanta gradi.

Un lavoro nel quale ti veniva richiesto di “spingere” a ripetizione: "Spingi il prodotto", "Spingi la pubblicità", "Spingi col cliente", "Spingi la zona". Sicché lo "spingere" (in qualsiasi campo) divenne un incubo tanto da farmi diventare stitico per settimane.

Uno di quegli ambienti nel quale i colleghi maschi non si separano dalla cravatta coi colori dell'azienda nemmeno per fare la doccia.

Un posto che condividevo con delle persone che quando “chiudevano” un contratto avevano l'entusiasmo di un sindacalista al concerto del Primo Maggio.

Dove, a scadenza bimestrale, dovevo andare a festini aziendali lontanissimi, con un piano bar condotto dal surrogato autoctono di Umberto Smaila.

E avrei voluto dire al mio principale “Hei amico, con quella miseria di provvigione che mi dai non posso neppure ordinare la pizza con l'aggiunta! Ti pare che guidi per cinquanta chilometri senza rimborso spese, dopo dieci ore d'ufficio, per subire 'sta pantomima?”

Un ruolo in una grande realtà in franchising capitanata da Il Presidente: una figura mitologica, un Dio fatto uomo, le cui gesta sono tramandate oralmente dai colleghi più anziani che ricordano con commozione l'unica, sfuggente, stretta di mano nel lontano duemilaquattro: “Non mi ha detto nulla, ma quando l'ho toccato ho sentito un'energia pazzesca.”

Il Presidente è E-N-E-R-G-I-A P-A-Z-Z-E-S-C-A!

Un'occupazione che prevedeva i meeting aziendali nei palazzetti, in grande stile, con tutti che fanno “Yeah”, “Evviva”, “Siamo i migliori”.

E ti ritrovi tra folle di donne su tacchi quattordici, con rossetti sbarluccicosi e unghie smaltate di fino, intonanti cori da stadio in onore de Il Presidente con una partecipazione che neanche un manipolo ultras al derby.

Un ufficio in cui ogni settimana dovevo sorbire “le riunioni” fuori dagli orari di lavoro, durante le quali non si diceva niente di nuovo, ne d'importante, ma si leggevano bellissime slides che citavano Shakespeare.

Noi siamo fatti della stessa materia dei sogni”.

Una frase meravigliosa che ho provato a ribadire anche al direttore di banca, dell'umore di un unno per la situazione del mio conto corrente, ottenendo come risposta l'imperativo “O rientri, o morte!”.

 

Alla finanziaria, però, c'erano anche aspetti positivi. Per esempio il mio collega Beppe. Beppe non si sarebbe mai ambientato veramente tra noi veneti. I veneti sono gente piuttosto chiusa, per farti apprezzare devi riuscire a confonderti. E per Beppe era impossibile mimetizzarsi per due motivi: l'accento brutalmente calabrese e la sua Y10 rosa (un vero veneto guida una Panda 4x4, un SUV Bmw o una qualsiasi altra automobile di colore esclusivamente total black, bianco o al massimo grigio. Rosa mai!).

L'automobile era per Beppe fonte di enormi preoccupazioni considerato che, per un certo tempo, credeva fosse posseduta dal demonio. La Ypsilon si metteva in moto da sola, suonava il clacson, sfanalava, attivava le quattro frecce e accendeva lo stereo a palla su Radio Maria.

Mìììì Mattì, pure su Radio Maria si mette. Vedi nu poco, su Radio Maria. Questi so segni!”

E non c'era verso di spegnerla se non scollegando i cavi della batteria. Probabile retaggio di una famiglia ultradevota, Beppe spiegava questo insolito fenomeno con la presenza di Satana sino all'intercessione dell'elettrauto.

Nei primi tempi fu il mio insegnante. Sotto la sua egida ho appreso come cazzeggiare su Facebook con nonchalance, come fissare appuntamenti fasulli per tornare a casa un'ora prima, come metterci quattro ore a compilare un modulo dell'Agenzia delle Entrare, come appiccicare post-it offensivi sulla schiena dei colleghi senza essere beccato e tante altre cose utilissime. Tuttavia, la storia di Beppe all'interno dell'azienda non durò molto. Avevo intuito che non sarebbe resistito da quando ammise, in un pulpito d'onestà: “Madò, come mi manca la sopressata.”

Un giorno, dopo pranzo, mi chiese di raggiungerlo nel suo ufficio.

Fu schietto: “Mattì, me ne vado.”

Dove te ne vai Beppe?”

Torno a casa. A Caccuri.”

E che ci vai a fare a Caccuri?”

Vado a lavorare.”

Dove scusa?”

In Comune.”

Ma è un posto pubblico Beppe. Non è mica detto che t'assumano.”

Tu lascia stare che in Comune a Caccuri c'hanno sempre bisogno.”

E su queste parole pesanti come macigni ci dicemmo “Addio”.

 

Nel frattempo la briosa vita all'interno del franchising proseguiva con iniziative sempre più attraenti per cementare il gruppo. Nell'esatto momento in cui avrei dovuto passeggiare sui carboni ardenti per mostrare la mia “fedeltà all'azienda” (no, non è uno scherzo) decisi che fosse davvero troppo e mi licenziai.

 

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