4 - La macchina nuova

 

 

 

Ho trascorso meno di ventiquattr'ore da disoccupato. Appena lasciata la finanziaria sono stato assunto in un'agenzia immobiliare dove lavorava un mio grande amico e con la quale (quindi) avevo avuto modo di collaborare in precedenza. Insomma, mi conoscevano, apprezzavano la mia professionalità e ciò che avrei potuto fare. Lì dentro ho trascorso quasi cinque anni con mansioni di vario genere: dalla vendita alla pulizia del mobilio. Grazie al sudore del lavoro, nello scorrere del tempo, ho raggiunto una risicatissima stabilità economica. Il che significava la possibilità di poter bere un caffè al bar senza farsi prestare soldi da un usuraio.

Un soggetto maschio, giovane e rampante cosa fa appena riesce a fornire qualche garanzia finanziaria? Si compra la macchina, ovvio! Anche se in realtà sono stati i miei genitori a costringermi: “Mattia, giri con una cosa che ha i finestrini che si tengono su con le mollette. Forse è ora che ti muovi con un mezzo decente...”

 

Se proprio dovevo cambiare, ho pensato che almeno avrei optato per un mezzo che mi piacesse davvero. E sapevo perfettamente quale auto desiderassi. Mi recai al concessionario di zona, determinato a uscirne con la vettura fiammante. Varcata la soglia nessuno a ricevermi. Il salone pareva vuoto. Poi vidi sbucare come funghi teste di venditori dalle porte degli uffici, da dietro le scrivanie, dagli angoli dei muri. I loro visi erano tra l'esterrefatto e lo stupito. Una calca si formò improvvisamente; i venditori si spingevano, mollavano pugni e ceffoni, si tiravano i capelli al grido “MIO, QUEL CLIENTE DEV'ESSERE MIO!”

Ho presunto che le cose non andassero proprio a gonfie vele.

Presto il pavimento si riempì di caduti. La legge del mercato è chiara: “sopravvive il più forte”, nella fattispecie un belloccio sulla trentina, con camicia grigia e scarpe nere scintillanti. Mi si fa incontro allungando la mano con sorriso a novantotto denti. Io ricambio e butto l'occhio sui feriti che se ne tornano vinti alle loro scrivanie.

Come posso aiutarla?” chiede lui.

Con la sicurezza di Rocco Siffredi a uno speed-date dichiaro: “Sono qui per COMPRARE un'auto!”

Il venditore si commosse.

Mi ringraziò, mi abbracciò, mi disse: “Sei il migliore!”

Obbiettai cordialmente: “Macché...”

No, no. Tu-sei-il-migliore!”

Guardata la macchina (con il “tipo” che teneva un braccio sulla mia spalla), ci sedemmo per definire.

Che versione volevi?”

Mah... Una normale, che abbia lo stereo e l'aria condizionata.”

Bene!”, battendo sulla calcolatrice, “La chiusura centralizzata la mettiamo?”

Si, meglio.”

Perfetto!”, battendo sulla calcolatrice, “Finestrini elettrici?”

Mh, direi di sì.”

Ottimo!” battendo sulla calcolatrice, “Vernice metallizzata?”

Il rosso è metallizzato?”

Sì.”

Allora vada per la vernice metallizzata.”

Ok!” battendo sulla calcolatrice.

Guardò il display, sorrise ed esultò: “Prezzaccio! Re-ga-la-ta!”, voltando la calcolatrice verso me per far notare la cifra.

Osservai, pensai, realizzai e...

Svenni.

Chiaraaaaaaaaa, i sali. Portami i sali! É successo un'altra volta!”

Un mese dopo comprai un'auto diversa da un'altra parte.

 

Fare l'agente immobiliare mi ha insegnato molte cose: rapportarmi con le persone, superare le obiezioni, la puntualità nelle consegne, la precisione, un metodo, lo sviluppo del business.

Mi ha fatto capire, soprattutto, che vendere case durante la crisi è facile quanto battere a scacchi Garry Kasparov. Le banche danno il mutuo solo a chi è milionario (qualcuno spieghi loro che presumibilmente ai milionari i prestiti non servono), chi compra desidera immobili simili a Versailles al prezzo di un monolocale nelle ”Vele” di Scampia e invece chi li cede è convinto di poter realizzare cifre da superenalotto. Questa è l'amara verità, volenti o nolenti. Sguazzare in un contesto simile, probabilmente percependo non fosse il mestiere della vita, ha creato una sorta di disillusione. E mi sono accorto di cosa sia veramente la crisi. Non servono grandi economisti, scienziati, esperti. Basta l'osservazione, l'esperienza, il dato empirico.

Perché la crisi (ed è evidente) è una condizione mentale prima che economica. La crisi è la “convinzione”, il “luogo comune”, la “questione di principio”. È la certezza che la propria dimora non abbia alcun difetto, che i prezzi siano troppo bassi (ma non che fossero troppo alti durante la bolla immobiliare), che le banche non elargiscano denaro quando invece smettono di indebitare persone. È ragionare allo stesso modo di quando andavi in drogheria, ordinavi un etto e mezzo di crudo, il salumiere diceva: “Sono tre chili e otto. Lascio?”, e tu: “Lasci, lasci pure.”

La crisi è mettere il punto alla fine del sogno, è rifiutare la differenza, è vivere senza visione.

La crisi è non cambiare mai.

L'agenzia (come quasi tutte del resto) soffriva negli affari e l'unica strategia per cercare di venirne fuori era: “Lavorare di più! Più ore, più chiamate, più visite!”. L'importante era la “quantità”. Mancano vendite? É perché non si lavora abbastanza, stop. Ma se continui a immettere quantità su quantità, ad aggiungere ore in ufficio, telefonate, uscite, appuntamenti, perdi la sostanza. E cioè che il metodo, forse, non è quello giusto. Forse quel modo di lavorare è superato. Forse c'è una nuova dimensione con la quale fare i conti.

Nella crisi, se vuoi migliorare devi attuare una “rivoluzione culturale”, altrimenti muori. Devi dire al salumiere: “Lasci un accidente! Mi dia l'etto e mezzo che ho chiesto perché ho trascorso quarantacinque minuti di lavoro (e cioè della mia vita) per poterlo pagare. Un etto e mezzo mi è più che sufficiente!” E non vedo come un giovane agente immobiliare potesse mutare lo status quo suonando i campanelli per recitare al citofono la litania “Salve, sono Mattia Tasso dell'Agenzia immobiliare tal-dei-tali. Saprebbe indicarmi se nella sua zona esistono case in vendita eccetera eccetera?”. Se volevo aggirarmi per strada mendicando attenzione mi sarei fatto Testimone di Geova! Quantomeno avrei avuto la soddisfazione di gridare: “LA FINE É VICINA!”

 

Quando il mio amico si licenziò iniziai a vacillare anch'io. Sino ad allora, in un modo o nell'altro, c'eravamo spalleggiati, sostenuti, avevamo condiviso difficoltà ed esperienze. Venendo meno il collante dell'amicizia all'interno dell'ufficio, non seppi resistere e presi la decisione giusta: lasciare.

Ad oggi, però, non mi pento di quella esperienza. Ho passato bei momenti e, onestamente, ho acquisito una serie di competenze che mi sono tornate buone successivamente.

 

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