7 - Come i libri ci salveranno dalla generazione prima

 

 

 

Ho sempre letto moltissimo. Sin da bambino i libri riuscivano a rapirmi, portandomi in luoghi sconosciuti o facendomi vivere storie, situazioni nuove, talvolta fantastiche, talvolta realistiche. Leggere significava evadere con la mente dalla banalità, viaggiare lontano pur stando nel letto di casa. Ricordo con piacere le notti trascorse a raccapricciarmi col Dracula di Stoker, il godimento misto a nostalgia nel leggere Calvino o Svevo, l'amore smisurato per Kafka, Lovecraft e per tanti scritti splendidi. A onor del vero, ci sono stati anche momenti difficili, tipo lo stato di pazzia dopo la full immersion ne “Il Signore degli anelli”. É stato abbastanza duro uscirne, lo ammetto. L'ho letto in una settimana, a sedici anni, un'età sbagliatissima perché il cervello è estremamente recettivo rispetto gli stimoli esterni e soprattutto (almeno il mio) molto attivo nell'abbandonarsi ai “viaggi mentali”. Ero arrivato al punto di passeggiare per strada, accovacciarmi, toccare con mano a terra, annusare ed esclamare: “Tracce. Orchi in fondo alla valle!”

“No, è cacca di cane...”

Avevo maturato in linguaggio per comunicare coi miei amici:

“Oh vecchio (NDA tipica espressione veronese), dove ci becchiamo?”

“Al calar del meriggio guarda verso est, oltre le colonne di granito dove la luce risplende.”

In oltre, era diventato problematico presentarmi a sconosciuti:

“Ciao, come ti chiami?”

“Sono Mattia, figlio di Monica, erede di Nicola della dinastia dei Tasso...” eccetera eccetera.

Insomma, ero divenuto uno sociopatico ma, fortunatamente, è passato e non mi esprimo, ne tanto meno mi comporto, come un Ramingo.

Ho anche scritto tanto. A dir la verità più per una pulsione creativa che per l'aspirazione di diventare scrittore. Le parole, insomma, sono state (e sono tutt'ora) importanti per la mia vita.

Prima di aprire una libreria ce n'è stata una in particolare che mi ha tediato, un termine che tutti conoscono fino alla nausea: crisi. E proprio sulla parola crisi mi sono concentrato in enormi riflessioni. Pensieri che val la pena di condividere.

 

Se crediamo di vivere la crisi economica sbagliamo di grosso. Dai su, facciamo i seri una volta tanto. La crisi economica è non avere un macchinone in garage, non farsi le ferie alle Maldive, non avere il villino con sette camere e tre soggiorni pur abitandoci in due, non avere il capo all'ultimo grido, quello che la moda detta, e che sino a qualche mese prima se uno l'avesse indossato avrebbero chiamato la neuro?

Non credo proprio.

La (vera) crisi economica, per come la vedo io, è patire la fame e il freddo, non avere una casa, non riuscire a curarsi dignitosamente se ci si ammala.

Certo, quest'epoca ha visto impennare situazioni di forte criticità sino a livelli tragici (penso all'aumento dei clochard, ai suicidi degli imprenditori, alle persone che vivono in auto, ai lavoratori cassaintegrati, alle proteste, le manifestazioni, le cadute di governo e le pensioni insufficienti).

Perché, ed è innegabile, un periodo di sofferenza dell'economia piuttosto forte c'è stato (e c'è) con tutte le sue conseguenze. Ma la realtà dei fatti è che in Italia la maggior parte delle persone vive ancora molto bene. Vive parecchio al di sopra della soglia di sopravvivenza. Quindi questa è solamente una crisi economica (come ce ne sono state centinaia nella storia), siamo noi che l'abbiamo fatta diventare la crisi economica.

O meglio, abbiamo la percezione che sia la crisi economica e attraverso questa convinzione alimentiamo un meccanismo dannoso.

 

La mia generazione soffre di un male gravissimo: non ha il briciolo di un sogno.

Una generazione senza sogni è una generazione triste.

Noi siamo tristi.

Chi è triste perde.

E questo è un retaggio derivato dai nostri padri. Senza se e senza ma.

Mica per una colpa volontaria, purtroppo si sono trovati all'interno di un contesto che li ha portati a maturare una serie di convinzioni deleterie. Il danno si è fatto quando “si stava bene”, quando “soldi ce n'erano”, quando “niente problemi”. Quando non c'era la crisi economica, nemmeno una crisi economica. Per comprenderlo basta riflettere un pochino indietro e guardarsi attorno.

 

Io vivo nel Triveneto, una zona che ha vissuto profondamente il cosiddetto “Miracolo economico”, un boom talmente fragoroso da spingere il mondo intero ad interessarsene. Come ogni esplosione è stata forte ma è durata poco. Nel Triveneto il botto è andato un po' oltre gli anni '70 (mentre nel resto della penisola si stava esaurendo); qui c'è stata l'economia più forte di sempre. Un tessuto fenomenale di micro-imprese, artigiani, piccole realtà produttive che hanno creato e accumulato ricchezza. Il benessere ha trasformato persone e territorio: i rampanti imprenditori triveneti, con le loro fabbrichette e orologetti al polso, hanno costruito villette in ogni angolo della pianura, con le piscinette, con i giardinetti e i garage dove tenere la spiderina. La forza Triveneta stava nel diminutivo. Niente di esagerato, niente di mastodontico, solo -etto, -etta, -ino, -ina. Eppure avevano tutto, tutte le cose, non mancava nulla, seppur in piccolo. La possibilità di spendere ha abituato all'accumulo e all'apparire, uno status symbol, una manifestazione del “ce l'ho fatta”, almeno per il momento. Tanti piccoli imprenditori che compravano tante piccole cose. Non era importante “avere il meglio” ma “avere e basta”, avere col diminutivo: -etto, -etta, -ino, -ina.

 

Questa attitudine l'ho rilevata anche nella mia famiglia, proprietaria di un'azienda tessile come molte al nord. Il punto è che la generazione dei “miracolati triveneti” ha cavalcato l'onda, vissuto il momento, sfruttato l'attimo, senza valutare esattamente cosa stava accadendo. La rete artigianale e micro-industriale era terzista, cioè molto spesso lavorava su commissione di grandi industrie.

La maggior parte dell'introito proveniva da lì, da ordini enormi, da richieste di 20.000 capi (quantità impossibili da allocare con le proprie forze per un semplice artigiano). I triveneti sono gente operosa, si danno da fare, il lavoro non li spaventa. Grandi richieste, grandi sacrifici e grandi soddisfazioni economiche. E poi? Poi l'industria ha fatto l'industria, cioè ha dislocato, delocalizzato, si è spostata dove conveniva: Cina, India, Brasile, Thailandia, Slovenia, Romania...

E i nostri bravi artigiani, micro-imprenditori, molto operosi ma poco competitivi sotto il profilo del prezzo (schiacciati anche da una pressione fiscale e costi fissi davvero alti) sono rimasti in braghe di tela. Un esempio lampante, seppur non proprio del Triveneto, è quello della FIAT.

Centinaia di aziende sono fiorite attorno al Lingotto e a Mirafiori, foraggiate da “mamma” FIAT per la produzione di sedili, cruscotti, volanti, pedali, specchietti specifici per alcune linee di automobili. Così, quando la FIAT ha deciso di spostare la produzione della Panda in Polonia e poi a Pomigliano d'Arco, quelli che ne costruivano le leve del cambio e solo quelle (e che magari avevano una trentina di dipendenti) hanno chiuso.

 

Ora, a ben vedere, è evidente ci fosse una visione miope della situazione. Una dipendenza talmente diretta e necessaria può portare grandi vantaggi nel presente ma anche enormi svantaggi nel futuro (com'è accaduto con un'industria che ha fatto l'industria, decidendo di produrre dove costava meno). Perché i nostri artigiani sono bravi, eccellenti, i migliori del mondo ma tutta la loro arte come può avvantaggiarli sul lungo periodo se si riducono a produrre leve del cambio per la Panda?

La generazione dei nostri padri ha cavalcato l'onda, ha sfruttato l'attimo ma l'ha anche speso in “roba”. Si è accontentata di “possedere” senza “godere”. Si è accasciata sul “piuttosto ora” anzi che “il meglio domani”. Si è permessa la villetta, la macchinetta, la vacanzina, l'anellino alla moglie, spesso comprato con le ratine, piccole piccole, da pagare un po' alla volta ma che ti danno i soldi subito. Si è seduta su un divano confortevole, ha spolpato finché ha potuto evitando di porsi mezza domanda. Sarebbe bastato chiedersi: “E se domani l'industria va a produrre in Cina noi che facciamo?”. Invece questo dubbio non è venuto a nessuno. Nella realtà è accaduto esattamente questo, l'industria se n'è andata in Cina e gli artigiani e i micro-imprenditori (italiani e triveneti) in un altro posto che comincia con la effe!

 

Una crisi economica c'è stata, è indubbio.

É stata l'abitudine, la rigidità, il principio di non cambiare ad averla trasformata in la crisi economica. E questa condizione perdura perché non accettiamo che il mondo sia diverso da prima.

Non sbagliato in assoluto, semplicemente diverso.

 

Il benessere è dannoso, solo che gli effetti si vedono dopo, si scaricano sui posteri.

É dannoso, soprattutto, un benessere che avviene improvviso, senza credenziali per durare nel tempo. La mia generazione è cresciuta con un concetto inculcato: “Lavorare serve a incamerare denaro per potersi permettere cose”. Noi ragazzi, i giovani di cui si parla spesso, siamo legati al materialismo, abbiamo ereditato un'immaginazione limitata, crediamo che la felicità sia l'aspirazione dei nostri genitori i quali erano abituati a bramare al diminutivo. O almeno, l'abbiamo creduto per diverso tempo. Ora qualcosa si muove, siamo stanchi, siamo esausti, vogliamo cambiare ma quali sono gli strumenti per farlo?

Tra tanti, a parer mio, ci sono i libri. Dalla mia esperienza sono proprio loro che alimentano il sogno, uno strumento d'ispirazione e visione. I libri permettono di costruire immagini, fantasie. Sono tra i mezzi di scambio migliore per le idee.

La nostra è sì una crisi economica ma è soprattutto la crisi culturale. E non lo dico tanto per dire. La crisi culturale è peggio perché si ripercuote sull'economia, sulla vita di tutti i giorni senza che ce ne accorgiamo. Se questa generazione non ha aspirazione, fiducia e idee, dove volete che vada? Se l'abitudine a sognare, a sviluppare la propria realizzazione ed essere creativi è rimasta talmente sopita da scomparire, come si può pretendere di rilanciare il paese, la famiglia, la società? Non c'è (quasi) più niente ma possiamo ricostruire, basta avere gli stimoli.

 

Io sono curioso di natura. Certe domande me le sono poste.

Mi sono chiesto se davvero fossi voluto diventare un padre tanto occupato da non avere un ritaglio per poter raccontare una favola ai miei figli o per portarli al parco a giocare.

Mi sono domandato se avessi desiderato una villetta senza abitarci con la persona che amo.

Ho riflettuto se davvero mi fosse servita una bella automobile per starmene in ufficio.

Ho valutato se fosse necessario un orologio costoso per poi non avere il tempo di leggere un libro indimenticabile. Mi sono chiesto se avessi potuto dire di aver vissuto una vita felice guardandomi indietro.

No.

Io sogno una vita diversa, migliore. E la sogno anche per chi mi sta attorno, per le persone a cui voglio bene e per la mia generazione.

La mia generazione, proprio lei, non ha più il briciolo di un sogno perché è ancora legata a quelli finiti dei padri.

Ma i loro sogni non sono i nostri!

Noi un mondo così non lo vogliamo, quantomeno spero.

Dobbiamo capire che la villetta, la macchinetta, l'orologino, la vacanzina non c'interessano poi molto. Dobbiamo capire di metterci gli occhiali e farla finita con la miopia. Dobbiamo aprire i libri e riappropriarci della libertà di sognare. Noi vogliamo vivere. E se ho maturato una convinzione è proprio questa: la generazione prima è morta, la nostra ha una speranza e saranno i libri a salvarci.

 

 

-Chi muore (Ode alla vita)-

 

di Martha Medeiros

 

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

 

 

 

 

 

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