Bailamme - Un racconto

(A una persona, della quale nutro profonda stima, questo racconto -composto qualche tempo fa- è piaciuto particolarmente. Il mio ego, solitamente abbastanza basso in fatto di scrittura, è migliorato un pochino dopo il suo parere. Quindi ho creduto fosse opportuno condividerlo, considerato che altrimenti non avrei saputo che farne.)

 

 

 

Il ragazzo soffriva di iperidrosi. Aveva i polpastrelli bagnati nonostante il freddo, ed era odioso rollare la sigaretta. La colla della cartina s'inumidiva senza leccarla, avvolgerla diventava maledettamente difficile perché un lembo, o un segmento, si appiccicava appena accennava a girare. L'iperidrosi gli faceva sudare le mani, ed erano zuppe come le avesse immerse a conca in una tinozza raccogliendo l'acqua. Non bastava strusciarle sul cappotto o tamponarle coi fazzoletti, sarebbero tornate fradicie in pochi secondi. Sin da piccolo questa malattia strana lo affliggeva e la sua vita aveva avuto sempre due costanti connesse: il sudore e lo scherno. Si chiama circolo vizioso: un nesso causale tra elementi che ne fa aumentare a dismisura gli effetti. Sudava e quindi veniva preso in giro (accade a chiunque patisca una disfunzione fisica, soprattutto durante l'adolescenza) e allora si agitava e sudava maggiormente e così via, in una spirale senza soluzione.

Ne buttò via due, di cartine, e poi anche il tabacco per il nervoso. Ma doveva soddisfare la sua voglia, l'ingordigia tipica dei fumatori ai quali apparteneva, che annoda leggermente la gola e brama di sfamare il vizio.

Si fermò al distributore automatico, strisciò il codice fiscale, la macchina fece “S-e-l-e-z-i-o-n-a-r-e i-l p-r-o-d-o-t-t-o” con una voce femminile della quale era impossibile definire età e corpo. Mise il denaro, troppo perché non disponeva della cifra esatta. Schiacciò il pulsante, sentì tonfare le Diana Blu nel cassone (e pensò che fosse davvero discrepante il livello del fragore rispetto al peso di una scatolina di carta) e poi il trillo delle monete di resto. Le raccolse ma una, quella da venti centesimi, gli scivolò. Succedeva spesso che le cose gli scivolassero via, come il diploma che non prese, l'offerta di lavoro alle poste che rifiutò, oppure sua nonna che chiedeva sempre di andarla a trovare, che gli avrebbe fatto il pasticcio di carne che a lui piaceva tanto e avrebbero cenato insieme. Alla fine lei morì di vecchiaia, una sera, da sola in casa come sempre, con la tv accesa a farle compagnia, seduta sul divano di velluto comprato molti anni prima in un Aiazzone aperto da poco, quando il marito era ancora vivo e dei nipoti neanche l'ombra. Invece il ragazzo non ebbe mai voglia di cenare con sua nonna e al funerale pianse non perché le sarebbe mancata ma perché si sentiva in colpa.

Strappò il cellophane dalla confezione di Diana, un'estremità della linguetta di plastica sottile si incollò a un dito e rimase qualche istante a vibrare per un soffio di vento. Poi si levò in aria scappando. Come tutto, come sempre.

Era notte e nel paese non c'era nessuno. Gli piaceva. Il giorno lo annoiava, gli sembrava di vivere un deja vu quando incrociava negli stessi esatti momenti e negli stessi esatti luoghi le stesse identiche facce: il vecchio coi ray-ban blu al semaforo della libreria, le badanti rumene sulle panchine, la ragazza riccia alla fermata del bus, la signora vestita da soubrette che beveva un aperitivo forte, forse per scordare la decadenza degli anni che teneramente tentava di allontanare con gonne corte e trucco pesante (svelati crudelmente dalle rughe del collo). Escluse queste esistenze ripetitive, a dire il vero, nel paese non c'era mai nessun altro, neanche di giorno, tranne i rumori, almeno quelli. La vita cigola, gracchia, ribolle, romba, fischia, struscia e così ce ne accorgiamo. Il chiacchiericcio indistinto da dentro i bar, i clacson delle auto in lontananza, il battere sulle rotaie dei treni. Sono presenza, sono sicurezza. Come da bambini, soli nella propria cameretta assieme alle paure dell'infanzia: l'uomo nero sotto il letto, le ombre spaventose. E per farsi coraggio (sempre che questo sentimento esista nella natura umana e non sia piuttosto stupidità) si cerca la voce della mamma provenire dal salotto, o i passi del papà che va in bagno, e allora il timore si assopisce, i grandi sono lì, a pochi passi, col loro potere in grado di proteggere da tutto, da tutti, da ogni mostro, e ci si può finalmente abbandonare al sonno.

Passeggiava da solo nel centro, illuminato dalla luce itterica dei lampioni. Le vetrine dei negozi spente, le serrande abbassate, le strade pulite. Osservò la città coi profili degli edifici rettangolari e la rettitudine delle vie. Vi riconobbe una geometria sterile, paranoica. Si accorse dell'ordine, domandandosi come mai fosse tanto apprezzato dalla gente. A lui, invece, lo faceva sentire oppresso. L'unico stridore visivo era una cabina telefonica con le ante sfasciate, vandalizzata, erta nel mezzo di un'elegante strada di ciottoli. Una specie di scultura, monito dell'anacronismo di certe cose che servivano una volta e ora non più, che possono (o magari devono) essere percosse da gesti violenti di ribellione all'inutilità. L'Homo faber: l'uomo che crea e distrugge ciò che esso stesso ha costruito. Si sentì sollevato da quell'errore urbanistico, da quell'eccezione. Era la prova che dei detriti si trovavano ancora, le imperfezioni resistevano dentro la disciplina maniacale e venivano messe in risalto dalla rovina. Aspirò intensamente e sbuffò fumo in alto. Rimase col mento all'insù, a occhi aperti. Il miasma si interpose tra lui e lo spicchio di luna in cielo. Vide le stelle solo quando la nube canuta si dissolse. A guardare bene erano davvero tante, pensò. Non le avrebbe mai viste tutte, per quanto si fosse sforzato di contare, ricordare e cercare. Erano minuscole da terra ma enormi, là nello spazio gigantesco dell'universo e comunque insignificanti in rapporto all'infinito. Ragionò sulle contraddizioni. Arrivò a credere che nulla fosse unico, o meglio univoco. I sensi erano relativi: la grandezza, la solitudine, l'importanza...

Continuò a camminare con la compagnia di un cane randagio che lo precedeva di una ventina di metri. Fantasticò sul fatto che fosse la sua sentinella e andasse in avanscoperta per avvisarlo dei pericoli. Il cane manteneva una distanza di sicurezza: non si avvicinava né si allontanava, stava giusto staccato quel tanto che bastava a conservare la visuale del ragazzo e viceversa. Forse pure lui credeva che il giovane fosse la sua sentinella. Il ragazzo provò ad attrarlo schioccando la lingua. Voleva accarezzarlo, gli stava simpatico quel cane, pensava che non avrebbe badato all'iperidrosi e non sarebbe scivolato via come il resto, avrebbe accettato un gesto in quanto tale. Molte persone se ne fregano dei gesti. I cani no, per i cani sono importanti. Ma il richiamo spezzò involontariamente l'equilibrio, pretendendo troppo da un rapporto basato esclusivamente su un intervallo preciso (e non su un reciproco contatto). Così l'animale se ne andò.

 

Finì di fumare che era arrivato al portico dove sapeva di incontrarlo. L'altro stava seduto su uno scalino, con la chitarra sgangherata che non aveva mai visto suonare e il puzzo stantio. Ognuno ha un odore, il suo era di pelle, capelli unti, sudore e fiato che mischiati assieme ricordavano parimenti la muffa e la merda. Il ragazzo sedette vicino senza problemi, era abituato al lezzo. Lo andava a trovare quasi ogni notte anche se, capendone il motivo, se ne vergognava. Per questo era combattuto. Inizialmente si era illuso che fosse altruismo, ma pian piano, in una presa di coscienza recondita, comprese che godeva morbosamente del paragone. Il confronto con un'umanità veramente sfortunata, e quindi peggiore, lo faceva sentire meglio. Erano giusti (nel senso che si basavano sulla giustizia) quelli appuntamenti? Probabilmente no. Erano egoisti. Da ambo le parti. Ma, in fondo, che importava? Decise di infischiarsene, perché certe questioni non bisogna nemmeno porsele se non si vuole impazzire. Bastano i gesti, appunto, o meglio i loro effetti. Allungò il panino avvolto nello scottex che teneva nel tascone della giacca e, toccandolo, la carta si inumidì dell'immancabile sudore delle mani.

“Hai da bere?” chiese il ragazzo.

Il barbone sollevò un cartone di vino scuotendolo per dire “sì”.

“E tu ce l'hai una sigaretta?” elemosinò il senzatetto mentre masticava, e il giovane lanciò il pacchetto di Diana blu.

“Volevano portarmi in ospedale!” disse il barbone.

“Chi voleva portarti in ospedale?”

“Gli sbirri” rispose, osservando la brace del tabacco, “ma io mica ci sono andato. No no no. Io sto bene. In ospedale si va se si sta male ma io sto bene. E in ambulanza ci sali se devi morire. E io non voglio morire.”

“Non è detto che muori se vai in ambulanza” osservò l'altro.

“Mia mamma era ammalata e allora l'hanno portata in ambulanza e dall'ospedale non è più uscita. Ascolta me: se vai in ambulanza vuol dire che stai per morire.”

Il ragazzo tacque per un po'. Non aveva senso ribattere alla follia.

A un tratto rivolse l'attenzione verso la chitarra: “La suoni?”

“Solo di giorno. La gente non vuole sentire la musica quando dorme. E tu, invece?”

“No” fece il ragazzo, “non riesco.”

“Come mai?” si interessò il barbone con espressione basita.

“Ho una malattia che mi fa sudare moltissimo le mani. Si chiama iperidrosi” spiegò.

“Iperidrosi, iperidrosi...” ripeteva il senzatetto, mentre appiccava un'altra sigaretta.

“Non riuscirei a tenere un plettro o a stringere le corde per fare un accordo: scivolerebbero.”

“É una brutta cosa non poter suonare” rispose il barbone chinando la testa.

“Già...” concordò sommesso il ragazzo.

Rimasero zitti di nuovo per un certo tempo. Il ragazzo non aveva voglia di parlare ancora e allora ascoltò il silenzio. Anche due persone mute producono rumore, ad esempio il respiro che, così attento, percepiva chiaro da entrambi; pure la notte ha i suoi suoni, come il frinire dei grilli sull'argine vicino o il battito d'ali dei pipistrelli, frequenze indefinite nella banalità dell'abitudine. Pensò che fosse la prima volta che ascoltava il silenzio, non aveva mai pensato di poterlo fare, non c'aveva mai pensato in assoluto, e invece era appena successo, oppure no, oppure aveva solo sentito rumori ai quali non aveva fatto caso prima e il silenzio non esisteva. Sì, doveva essere così.

Riprese parola: “Perché te ne stai sempre qui, sotto il portico?”

“Perché mi protegge.”

“E da cosa?”

“Dal cielo.”

“Dal cielo?”

“Sì” disse il senzatetto stiracchiandosi un braccio.

“E cos'ha il cielo di così pericoloso?”

“Guarda” il barbone drizzò l'indice disegnando un arco immaginario che percorreva la volta celeste, “tutte quelle stelle. Magari una sta precipitando verso di noi e neanche ce ne accorgiamo.”

“Penso ce ne accorgeremo invece” disse il ragazzo.

“Ah ne sei convinto?” sbottò il barbone. “Sai quanto sono grandi le stelle? Invece a noi sembrano puntini uguali. Che ne sai tu se una si è avvicinata di una galassia o due e si sta schiantando verso la terra? Una galassia è lunga milioni di chilometri e le stelle ci mettono un attimo ad attraversarla se vogliono. Mica le controlli tu le stelle, non si possono controllare le stelle perché sono troppe e troppo lontane e ci sembrano tutte uguali e ferme e invece forse non è così e magari una si sente di cadere sul nostro pianeta!”

“Pensa quello che vuoi” proseguì dopo una sorsata di vino, “ma la verità è che le stelle non le puoi controllare: se decidono di cascare, cascano.”

Il barbone gettò via il filtro della sigaretta ormai finita, si accucciò prono col ventre nel marmo gelido e si abbozzolò in una coperta sudicia, con la nuca rivolta all'altro che fece l'ultima domanda: “E cosa possiamo fare se le stelle decidono di cadere?”

“Tu non lo so” disse il senzatetto prima di chiudere gli occhi, “io me ne sto al riparo sotto al portico.”

 

Il ragazzo lasciò il rifugio del barbone e tornò nel suo: a casa. Era tardi e le stelle splendevano nel loro bailamme. Quella notte non ne sarebbe precipitata nessuna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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